Facile immaginare una Carla Accardi stupita e felice davanti a questo allestimento dedicato ai suoi «lenzuoli» nel cuore del Museo Correr a Venezia: Carla Accardi. Gli anni Settanta. I lenzuoli, fino al 29 ottobre. Siamo nella sala 32 del percorso, la sala detta delle «Quattro porte», uno dei pochi ambienti delle Procuratie Nuove ad aver conservato sostanzialmente la struttura originaria dello Scamozzi, come ci segnala puntualmente la Guida Rossa del Touring (che delitto aver abbandonato il cantiere di strumenti precisi, puntuali e civili come questi…). Abitualmente questo spazio di passaggio tra la sala del Bellini e quella delle Dame di Carpaccio è dedicato alla scultura lignea del Quattrocento: per l’allestimento del ciclo dei Lenzuoli dipinti di Carla Accardi alcune delle opere della collezione sono state lasciate strategicamente al loro posto.

Ad esempio è rimasta nella sua collocazione una Madonna della Misericordia di autore anonimo di fine Quattrocento: è appesa in alto su una delle pareti lunghe. Apre il largo mantello, che il tempo ha privato delle sagome dei fedeli che, come da tradizione iconografica, si radunavano alla sua ombra in cerca di protezione. Per questo il mantello cade libero in direzione del sottostante Lenzuolo sabbiaarancio (1973) dell’artista trapanese. Il dialogo che ne nasce è commovente: la trama delicata tracciata sul cotone sembra suggerire al nostro occhio la policromia perduta della scultura, in un rapporto di inattesa complementarietà.

La vicenda di queste opere dipinte sul supporto di lenzuola di cotone rappresenta un passaggio importante nella parabola di Carla Accardi. Dei dodici pezzi qui in mostra, due appartengono alla serie esposta in occasione della mostra del 1974 alla Galleria Editalia a Roma, con presentazione di Maurizio Fagiolo dell’Arco che sottolineava come «il supporto classico del pittore, la tela», fosse «ridiventato cosa: sette lenzuoli senza virgolette. E sopra, una pittura essenziale». Accardi faceva i conti con importanti precedenti: in particolare quello storico di Luciano Fabro, con i suoi folgoranti Tre modi di mettere le lenzuola, e quello più vicino nel tempo di Piero Consagra, con i suoi Lenzuoli, grandi teli dipinti con colori lavabili e realizzati dall’artista a partire dal 1967 (li si sono visti recentemente a Lugano in una mostra della collezione Olgiati e a Milano alla galleria di Tommaso Calabro).

Come ha ricostruito Giovanna Zapperi, Accardi aveva chiesto all’amico Consagra (insieme avevano partecipato nel 1947 all’esperienza di Forma 1) il permesso di copiare l’idea di dipingere su lenzuola. Aveva in progetto una serie di opere che voleva dedicare a Marta Lonzi, architetto e sorella di Carla, a quei tempi compagna dello stesso Consagra. C’era evidentemente un tacito patto in base al quale le opere sarebbero rimaste in un ambito privato. La decisione di esporle nel 1974 aveva provocato il risentimento dello scultore e anche di Carla Lonzi, che per l’amica aveva formulato l’imputazione di «graziosa cleptomania»…

Incidente a parte, l’episodio sancisce il momento di allontanamento tra le due Carle, e per questo rappresenta uno snodo delicato e importante nella storia dell’artista. Lonzi infatti spingeva in direzione di una radicalizzazione, teorizzando un’inconciliabilità tra arte e femminismo. Accardi invece, comprensibilmente, voleva continuare a fare l’artista senza rinunciare all’esperienza femminista. «Io mi sono sempre occupata di pittura, allora non ho voluto più togliere niente a questa, per darle tutta l’intensità. Questa era l’idea base della mia possibilità anche di vivere», avrebbe confidato anni dopo ad Hans Urs Obrist.

Per conciliare comunque i due ambiti, arte e femminismo, nel 1976 aveva fondato una cooperativa che prendeva il nome dalla via in cui aveva sede: Cooperativa Beato Angelico. Un nome non casuale, perché, come sottolinea il curatore della mostra veneziana Pier Paolo Pancotto nel testo introduttivo al catalogo (Dario Cimorelli editore), la traiettoria di Carla Accardi aveva incrociato il grande artista domenicano già nel 1944, quando da allieva dell’Accademia di Belle Arti di Firenze, insieme ad Antonio Sanfilippo, futuro compagno di vita, disertava «le lezioni per andare a pochi passi a copiare il Beato Angelico a San Marco approfittando delle luci di Alinari che all’epoca fotografava quelle opere».

È una convergenza rivelatrice che aiuta a leggere l’esperienza dei Lenzuoli. Accardi aveva registrato i primi stimoli a rompere gli argini tradizionali della pittura già nel 1964, vedendo esporre gli artisti pop alla Biennale di Venezia, dove per altro era presente anche lei con una presentazione di Carla Lonzi. Proprio a Lonzi, in Autoritratto, aveva confidato: «Ho ripreso da lì, dopo aver chiarito le idee con gli Americani che come scrivi tu, mi hanno dato nuovo fuoco… Ho nuove idee e voglia di fare quadri enormi anch’io: senza telaio per il problema di entrare e uscire dalla studio». La suggestione andava nella direzione di un’arte capace di trasformare la percezione dell’ambiente circostante, anche allargandosi a una dimensione tridimensionale, come in particolare accade con la Tenda (1965-’66) o con i Rotoli (1965-’69). I Lenzuoli, pur rientrando nei ranghi di una pacata bidimensionalità, ugualmente obbediscono a una necessità di irradiare nello spazio le pulsazioni leggere delle loro geometrie: certamente il contesto del museo veneziano e l’allestimento misurato firmato da Francesca Boni esaltano questa loro natura. Oltretutto, rispetto all’esposizione originaria del 1974, dove erano appesi aderenti ai muri, tenuti tesi con chiodi agli angoli, oggi i Lenzuoli calano da un montante orizzontale posto sul retro, così da arieggiare nell’ambiente come degli stendardi che gettano le loro ombre sulle pareti.

«Nella società italiana mi sembra che la purezza dei gesti sia un punto ancora da cominciare ad affermare», diceva Accardi in un’altra pagina di Autoritratti. Questo desiderio di ripartire da una «purezza del gesto» inevitabilmente riporta a quella frequentazione giovanile con la pittura murale di Beato Angelico, una pittura che oltretutto, come in pochi altri casi nella storia dell’arte, riusciva a plasmare e a definire con la sua luce e il suo mood lo spazio circostante. Il lenzuolo, supporto povero, connesso con la dimensione più intima della vita, era un medium congeniale per sperimentare un segno di inedita semplicità, «ripetitivo, anonimo, particella di una struttura, ma variante all’infinito» (Accardi nell’intervista a Obrist). Variano all’infinito come ali di rondine i segni dei due Lenzuoli bianco e grigio: il più grande si distende nella parte alta di una delle pareti, quasi a far da cielo alla sottostante ancona d’altare quattrocentesca, trittico in legno dorato con Madonna e due santi: e qui sembra di cogliere memoria di un’altra visione che aveva segnato Carla Accardi, quella del Mausoleo di Galla Placidia, con la cupoletta a motivi seriali di stelle.

Altrove prevale invece il motivo reiterato di triangoli con l’ipotenusa dolcemente incurvata, sperimentati di volta in volta in verde, in rosso e in grigio. Un nuovo sorprendente dialogo con il contesto scatta invece nel caso del lenzuolo di formato quadrato che prende il titolo non dal soggetto – un fiore con quattro grandi petali – ma dal colore, Biancoviola (1975): è stato appeso sopra i magnifici battenti del portale gotico proveniente dalla cappella del Volto Santo presso l’Istituto Canal Marovich ai Servi. Sospeso là in alto lo vediamo adeguarsi con grande dimestichezza a svolgere la funzione di rosone; un rosone con temporaneo nel segno di una coesistenza discreta ma vibrante di felicità.